lunedì 11 febbraio 2008

12)Marco Bega

Trovo sempre paradossale l’interesse che alcune comunità e istituzioni, tra le quali purtroppo c’è anche lo Stato, hanno verso due particolari tratti della mia esistenza: quello che ha preceduto la mia nascita e quello che seguirà la mia morte. Preferirei di gran lunga che si interessassero invece del tratto intermedio, l’unico che reputo importante, ma tant’è. Pare che sia più difficile morire che vivere e che occorra preoccuparsi con largo anticipo (si spera) e profondo discernimento delle proprie spoglie. Mi ritrovo così a redigere un testamento biologico, mancando beni materiali da lasciare in eredità con un testamento propriamente detto. Prevedere tutti i singoli casi in cui dovrei lasciar disposizione del mio corpo non è né semplice né, d’altro canto, piacevole. In caso di morte cerebrale, ribadisco la mia volontà di donare organi e tessuti del mio corpo a scopo di trapianto. Fortunatamente questo è un caso previsto dalla legge e ci dovrebbe esser poco da sindacare. Nel caso in cui mi trovassi in stato vegetativo da più di 30 giorni e fossi dichiarato da almeno due medici specialisti in stato vegetativo persistente, voglio che mi si consideri per quel che sarei, cioè morto. E in quanto morto, voglio che l’unica comunità che abbia diritto a decidere del mio corpo sia l’unica comunità naturale che da sempre fa ciò, ossia la mia famiglia. Nessuno, oltre ai miei congiunti, potrà decidere altrimenti o opporsi a quanto stabilito da loro. Così come non ho particolare interesse nel sapermi seppellito oppure cremato, non ho neanche particolare interesse nel sapermi idratato e concimato come un vegetale o meno. Se la mia famiglia dovesse ritenere di trarre un particolare beneficio nel tenermi sospeso tra una non vita e una non morte non avrei nulla da obiettare: sarei comunque incosciente e privo di qualsivoglia stimoli, interessi, piaceri, dolori, desideri. Sarei soltanto un soprammobile, particolarmente ingombrante. Ovviamente spero la considerazione che i miei familiari hanno di me sia maggiore di quella che hanno per una pianta d’appartamento e che mi risparmino un simile destino. Nel caso in cui decidano, come mi auguro, di porre fine a una simile barbarie consumata sul mio corpo, invito i miei cari a fare ogni cosa sia nelle loro facoltà per raggiungere tale obiettivo, senza alcuna limitazione di sorta, sentendosi esenti da qualsiasi responsabilità o senso di colpa. Devo fare considerazioni diverse nel caso in cui mi ritrovassi in situazioni dove la mia capacità di giudizio fosse ancora completamente integra ma la sorte mi avesse riservato di contrarre una qualche patologia a prognosi sicuramente infausta e progressivamente invalidante. Mi riservo comunque il diritto di decidere nel momento in cui si verificasse simile situazione, ma sento la necessità sin da ora di rivendicare il diritto a decidere della mia vita. Trovo particolarmente barocco - pur comprendendone appieno il senso profondo - il disquisire sui termini accanimento terapeutico, eutanasia e suicidio. Perché provo umiliazione e fastidio nel pensare che siano degli estranei a dover fissare dei limiti in mia vece su temi così profondamente personali. In condizioni simili, essendo ancora vivo e cosciente, ho pieno interesse a stabilire cosa fare di me. Non ho alcuna intenzione di passare gli ultimi giorni della mia vita immobilizzato su un letto, assistito da gelidi macchinari che suppliscano alle mie funzioni vitali e sotto l’effetto dei farmaci utilizzati nelle cure palliative. Reputo una intrusione insopportabile nelle mie libertà personali che sia una qualsiasi comunità a voler decidere cosa debba fare io del mio tempo e della mia vita e sento una incommensurabile vergogna ad essere cittadino di uno Stato che s’arroga simili diritti. Occorre riappropriasi del possesso del proprio corpo. È una battaglia di civiltà che sento di combattere fino alla fine. Marco Bega Latina, 11 febbraio 2009.

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